UNA BELLA STORIA… DALLA TANZANIA SINO A VERONA sopra un arcobaleno

UNA BELLA STORIA…  DALLA TANZANIA SINO A VERONA  sopra un arcobaleno

Bruna

Una calda estate africana dell’agosto del 2002, un orfanotrofio con oltre 70 bambini a
Mgolole, nella regione di Morogoro, in Tanzania. È allora che vedo per la prima volta
questo piccolo bimbo ricciolino, con il naso schiacciato tipico di quella etnia, gli occhi

profondi, che ti scavano dentro e di cui t’innamori a prima vista.
Ecco! Per Silvan è stato proprio un amore a prima vista! Ci siamo scelti. Lui mi ha chiamato
da subito “ma’ Bruna”.

Quell’anno sono partita da Verona pensando di dare il mio contributo, dato che ormai da
due anni prestavo il mio servizio per il gruppo che allora si chiamava “Bonde dogo” (piccola
valle in lingua swahili), ed invece sono tornata, dopo tre settimane, con la mia vita sconvolta
e con un bagaglio di doni immensi che nessuna cosa materiale avrebbe potuto mai darmi!
Eravamo partiti in sei: Silvano ed Anna – i nostri pionieri – Franco della Fimac – Vittorio mio
marito, io e nostra figlia Milena, fresca di laurea proprio su una tesi sull’Africa. Partiti alla
volta di Msange dove la società di Silvano aveva costruito un medical center e dove il gruppo
Bonde Dogo, con un buon lavoro qui a Verona, aveva iniziato a dare il suo contributo. Lì, già
l’anno prima, Silvano e Vittorio avevano conosciuto le suore dell’Immaculate Heart of Mary
Sisters che li avevano invitati a trascorrere del tempo a Mgolole, presso la loro Congregazione.
Non mi scorderò mai quel 4 agosto del 2002, quando siamo entrati nell’orfanotrofio! I tanti
bambini un po’ lerci e vestiti con abiti raffazzonati che mangiavano da una ciotola un po’ di
zuppa di fagioli…lerci, malvestiti si…ma con un sorriso meraviglioso e con un grande amore
da donare a tutti noi!
Ecco che, in poco tempo, ero diventata per tutti “Mamma Bruna” ma per Silvan ero, e sono
tutt’ora, la sua “mom from Italy”! Nessun’altro bambino, in sua presenza, poteva avvicinarsi…
lui li respingeva tutti con forza e, con i moccoli che scendevano copiosi, si attaccava con le
sue manine ai miei pantaloni. Amore puro!
Ci siamo lasciati con tante lacrime ed io sono tornata alla mia confortevole casa di Verona,
al mio lavoro, ai miei affetti…ma nulla era per me uguale! Come ho avuto modo di scrivere
nel libro “Terra rossa che non dimentichi… e ti fa ritornare” che l’amico Silvano ha voluto con
forza pubblicare, la mia vita era cambiata! Abbiamo dato il via al progetto “Mtoto Mzuri”
(bambino felice) e quel nome lì, nostra figlia Milena ora segretaria della Onlus, l’ha pensato
proprio guardando il piccolo Silvan! Da subito, anche lei, se ne era innamorata ed avrebbe
voluto metterlo in valigia e portarselo a casa. Se lo mangiava di baci e lui rideva come un
matto.
Tornata a Verona, la tastiera del mio PC si surriscaldava per le tante lettere che scrivevo ad
amici-sostenitori per raccogliere fondi e poter quindi dare il mio contributo per sostenere
tutti quei bambini, sognando di costruire scuole dalla materna alle superiori. Inizialmente
era proprio un sogno, ma nel giro di solo 5 anni lo vedemmo realizzato! Dove avevamo
trovato tanta forza? Dagli occhi dei nostri bambini…io sicuramente da quelli di Silvan! Avevo
le sue foto un po’ sparse dappertutto nella camera degli ospiti, divenuta il quartier generale
del progetto. Avevamo pensato a bei slogan dove c’era sempre un arcobaleno colorato che
congiungeva Verona con Mgolole e lì, proprio lì, vedevo scivolare Silvan sino a me. Se ci
penso bene è tutt’ora la mia forza.
Silvan allora aveva due anni e per i successivi sette anni, in cui sono volata in Tanzania, l’ho
sempre incontrato, il legame era diventato sempre più stretto. Tutti mi prendevano un po’
in giro ma, con tutta sincerità, a me non importava un gran che! Ci sono stati degli episodi
del tipo “Paperissima”, come quella volta che, arrivati dall’Italia a Dar es Salaam ed essere
stati prelevati dalle suore con un pick up per portarci a Mgolole, io, non ho aspettato che
qualcuno mi facesse scendere da dietro, ma sono scesa a mo’ di “sacco di patate” cadendo
rovinosamente a terra, sporcandomi tutta, ma proprio tutta, di terra rossa…questo perché?
Perché avevo visto Silvan al cancello della scuola che mi chiamava: “Mà Bruna, Mà Bruna”.
Questo piccolo bimbo le suore ci dissero che era orfano e non aveva nessuno. Non nascondo
che avevo seriamente pensato di portarlo in Italia, ma le convenzioni con quello stato non
c’erano e poi, a mente lucida, sarebbe stata una cosa un po’ folle…lui, come tutti gli altri
bambini, stavano bene là, nella loro terra rossa. Sarebbe stato importante dare istruzione ed
un futuro, ed è quello che abbiamo e continuiamo a fare, non senza fatica.

Ogni anno “me lo spupazzavo” ed andavo sempre a
sbirciare nel registro delle suore per carpire qualcosa
di più sulla sua provenienza… ma le informazioni
erano veramente quasi nulle. Chiacchierando con la
superiora, che veniva anche in Italia una volta l’anno,
mi disse che la sua mamma era morta, che il suo
papà c’era ancora…ma che l’aveva abbandonato.
L’ultima volta l’ho visto nel 2008 e quando nel
nell’ottobre del 2010 Vittorio ritornò in Tanzania…
all’orfanotrofio non c’era più e nessuna suora sapeva
dare notizie; ci dissero solo che “qualcuno era
venuto a prenderlo” ma non si sapeva chi e dove
l’avessero portato.
In Africa succede spesso così. Portano i bambini
appena nati all’orfanotrofio dalle suore perché non
possono svezzarli e quando crescono e si fortificano,
li vanno a prendere, perché possono dare una mano
alla famiglia….ma quale famiglia per Silvan?
Ci ho pensato sempre, per anni…sino al giugno del
2017 quando, dopo qualche anno di assenza dalla
mia amata Africa, sono ritornata. Nel frattempo il
gruppo, che si era fuso con l’Associazione Voci e Volti, aveva rivolto il suo sguardo al nord, ai
piedi del maestoso Kilimangiaro, iniziando dei nuovi progetti e costruendo il bel “Villaggio
Sole di Speranza” ad Usa River dove, tutt’ora, i nostri sforzi sono rivolti. Sono ritornata …e
dopo aver con gioia visitato il Sun of Hope – sole di speranza appunto – ed aver conosciuto
i meravigliosi bambini che lo abitano, siamo anche ritornati sui nostri passi verso Mgolole,
per verificare che i progetti ed in particolare le scuole, funzionassero a dovere.
Grazie a Dio era così! Le scuole ospitano oltre 600 ragazzi e funzionano a meraviglia! Che gioia
ma…ma…l’orfanotrofio? I nostri bambini? Erano cresciuti? Stavano ancora studiando? I più
grandi si erano diplomati? E Silvan? Che fine aveva fatto Silvan? Chiedevo a tutti: alle suore,
alle “dada” (le ragazze che lavorano all’orfanotrofio) e ricevo fantastiche notizie in ordine
ai bambini. Quasi tutti avevano studiato. Alcuni avevano terminato e c’è chi lavorava come
analista all’ospedale di Mikumi; chi lavorava al panificio di Morogoro (che nel frattempo il
gruppo aveva costruito ed attrezzato). Di altri non si aveva notizia perché tornati a casa –
“niumbani” -, come dicevano le suore, ma, ad ogni buon conto, il nostro cuore era gonfio di
gioia perché tutto ciò che era stato fatto era servito e serviva.
Si… ma Silvan? Dov’era finito il “mio Silvan”?
Un pomeriggio fin che ci facevamo impiastricciare con i chupa-chupa dai bambini…Andrew
un ragazzo di circa 22 anni che era stato ospite dell’orfanotrofio, aveva studiato nelle nostre
scuole e aveva frequentato l’Università per divenire insegnante, grazie all’aiuto delle Suore e
dava una mano alla struttura, mi disse: “Ma io so dov’è Silvan!” Lo abbracciai e gli dissi che se
lo avesse portato lì, gli avrei dato una grossa mancia! Cosa fatta! Dopo due giorni mi informò
che, l’indomani, Silvan sarebbe arrivato con il bus a Morogoro da Iringa, dove abitava. Mi
disse che abitava con i nonni materni e che il nonno era “il ministro delle acque” di Tanzania!
Suo nonno un ministro? Ma come era possibile? Silvan, il piccolo Silvan “abbandonato”
all’orfanotrofio delle suore? “Sei sicuro?” gli dissi. Aspettai trepidante quel mercoledì 17
giugno 2017 alle ore 9,00 quando Silvan doveva arrivare.
E difatti arrivò, assieme ad altri due ragazzi ed a Andrew…mi (ci…perché c’erano anche Vittorio,
Anna, Silvano) riconobbe subito ed allargò le braccia, mi venne incontro e ci abbracciammo…
farfugliammo qualche parola in inglese …un brutto inglese…ma chissenefrega! Lui balbettò
pure…e mi ricordai che anche da piccolo, quando si emozionava, succedeva…scattammo
foto…gli chiesi notizie…mi disse che studiava, che stava finendo la terza superiore e poi,
preso il diploma, sarebbe andato all’università. Che abitava con i nonni.
TI HO RITROVATO!
Io non ebbi il coraggio di chiedere altro, in quel momento. Ero felice di averlo ritrovato,
di vedere che stava bene, che era cresciuto, diventato un bel ragazzo, pulito, ordinato. E
questo mi bastava. Ci scambiammo i numeri di telefono e, da allora, non ci siamo più lasciatise non per brevi periodi perché a scuola, nel college dov’è, non gli permettono di usare ilcellulare. Quindi riappare a periodi…ci scambiamo notizie, saluti ed auguri…sino a gennaio
di quest’anno, quando mi disse che aveva preso il diploma ed ora stava aspettando di fare
l’esame di ammissione all’università. Da gennaio ci scriviamo mattina, mezzogiorno e sera.
Lui mi fa vedere con WhatsApp (benedetto whatsup!) la sua vita in Africa, mi fa vedere i suoi
nonni, in particolare il suo “famoso nonno” che lui chiama “grand pa”. Mi manda foto del
nonno con il Presidente John Magufuli, o in Cina in rappresentanza della Tanzania. Mi manda
foto della nonna che per lui ha preparato una buffa torta a forma di “cappello da laureato”
(in Tanzania preparano queste, apparentemente, meravigliose, torte che però, poi, hanno
tutte lo stesso sapore!) nel giorno della sua
ammissione all’Università (il graduation day).

 

Ora frequenta il primo anno per laurearsi in
“Economia degli affari portuali” e mi scrive
che per lui lo studio è vita!
Io gli mando foto della nostra casa e del mio
ufficio, foto della nostra bella Verona. Non
faccio tempo a postare una foto di me o dei
miei nipoti o parenti, sul profilo whatsup o
sullo “stato” che lui la mette su Instragram
o sul suo profilo con la scritta: “un’altra mia
famiglia, quella in Italia”…mette anche la mia
foto e ci scrive “la mia bellissima mamma in
Italia” (menomale che c’è lui! Ma forse ha
bisogno in un paio di occhiali. Sigh!). Riposta
anche i post che io metto su Instagram per Voci e Volti e scrive: “loro lavorano per i bambini
in Tanzania, costruiscono scuole per la nostra gente”.
Una sera, che lo sento triste in quello che mi scrive…prendo coraggio e gli chiedo dei suoi
genitori.
Lui mi scrive: “la mia mamma è morta ed il mio papà non mi ha voluto” …allora gli chiedo
perché è stato portato a Mgolole se aveva un nonno così importante. Mi risponde che i suoi
nonni paterni non lo volevano nemmeno loro e che i suoi nonni materni non sapevano della
sua esistenza…capisco che la mamma (un po’ l’avevo intuito dai racconti della suora) aveva
nascosto ai genitori questa gravidanza e che era morta subito dopo la sua nascita. Che storia
triste…ma che finale ragazzi! La suora, ancora a Mgolole quando l’avevo rincontrato, mi
aveva detto anch’ella del nonno importante e mi aveva fatto capire che, anche loro, avevano
saputo questa storia solo successivamente.
Nei giorni a seguire mi ha, a più riprese, raccontato la sua vita dopo Mgolole. Il nonno ha
saputo della sua esistenza solo quando lui aveva 10 anni ed era andato a prenderlo subito,
portandolo a Iringa dove aveva continuato la primaria e poi le superiori. A Mgolole, mi ha
detto, aveva fatto sino alla terza elementare.
Gli ho anche chiesto come era stato vivere in un orfanotrofio sino a 10 anni e lui mi ha detto
che ci è stato bene, che era felice e che il fatto di aver potuto iniziare la scuola per lui era
stato importante.
GRADUATION DAY
Se avevamo ancora qualche dubbio sull’utilità dei nostri progetti scolastici, ecco la più bella
risposta! Mi ha detto anche che sapeva che c’eravamo noi, in Italia, che aiutavamo i bambini
come lui e di questo, ancora oggi, ne è profondamente grato.
Oggi, mentre sto scrivendo, sono preoccupata. Ieri sera mi ha detto che è all’ospedale a
Dar es Salaam, con la malaria e la febbre tifoide. Mi ha mandato una sua foto con la faccia
stravolta. Mi ha detto, comunque, che il suo “grand pa” gli ha mandato delle persone fidate
a vedere come stava e cosa c’era da fare…ma sono preoccupata lo stesso. Come è possibile
che pur vivendo in un ambiente protetto prenda ancora la malaria? Perché questa malattia
colpisce ancora così tanto quel continente?
Ricordo, nel 2006, quando siamo scesi a gennaio e c’era un gran caldo, anche allora aveva la
malaria. Era nel suo lettino della camera che divideva con altri bambini e, pur senza forza per
la malattia, mi stringeva la mano. Che tenerezza! Se ci penso mi si stringe ancora il cuore!
I suoi occhi erano lucidi ma, sotto la zanzariera, per me risplendevano.
Questa “nostra storia” è linfa vitale per me quando, stanca dal lavoro e dalle faccende
domestiche, devo dare il mio contributo per la nostra associazione. Lo penso, penso a quanto
il lavoro di noi volontari sia stato e sia tutt’ora utile per
questi bambini. Penso anche agli altri bambini, a quelli
di Mgolole, ormai cresciuti, ed ai piccoli di Usa River che
ci hanno chiesto a gran voce: “Napenda Kukua…vorrei
studiare”. La forza mi sale e la fatica mi abbandona.
E’ questa la mia forza, i sorrisi e gli occhi di tutti “i nostri

bambini”. L’ho ripetuto, come una stupida romanticona,
in tutte le interviste che mi hanno fatto in occasione
della presentazione del libro. Sarò parsa stupida…forse
è vero…ma è così…e ringrazio il buon Dio che con i miei
65 anni suonati ed i capelli bianchi, mi da ancora “quella
grinta” che mi ha sempre contraddistinto sin dai tempi
degli scout e mi ha lasciato anche la “gioia nel cuore”,
quella della “cinciallegra”, gioia che si alimenta con le foto
che Milena si fa mandare da laggiù e…naturalmente…
con le chiacchierate via whatsup con “il mio Silvan”!

Silvan    2019     Bruna